Altre tre donne sedevano in cerchio a uguale distanza,
ciascuna sul proprio trono:
erano le Moire figlie di Ananke, Lachesi, Cloto e Atropo,
vestite di bianco e col capo cinto di bende;
sull'armonia delle Sirene Lachesi cantava il passato,
Cloto il presente, Atropo il futuro.
(Platone, Repubblica X,135,34)
Scritto in prima persona, il romanzo di Domenico Starnone “Vita mortale e immortale della bambina di Milano” (Einaudi, 2021) dispiega agli occhi del lettore la vita del protagonista il quale, da bambino a adulto, intraprende un vero e proprio viaggio dell’eroe. Il suo processo di individuazione e di autorealizzazione si compie attraverso il destino, inteso come una necessità di un iter che conduce da una fase di passaggio all’altra, laddove puer e senex si incontrano, si specchiano e si riconoscono. Eroe per caso, eroe per necessità, il protagonista si confronta con la verticalità del tempo, della vita e della morte, una morte che attraversa il suo sguardo, una morte che segna il passaggio da una fase della crescita interiore alla successiva.
Da puer, il protagonista Mimì si sente investito da una missione, ovvero quella di salvare la bambina che vede sul balcone di fronte dalla sua finestra e della quale si è invaghito. Quella bambina che non parla dialetto, e dunque ai suoi occhi proveniente necessariamente da Milano, il luogo-altro, è una creatura diversa, estranea alla comunità, estranea al microcosmo del cortile e diviene subito oggetto di desiderio, de – sidera dalla sua etimologia latina: Mimì avverte la mancanza delle stelle, degli auspici augurali. Mimì gioca, affronta e sperimenta la morte nelle sue fantasie ludiche infantili, si trova ad affrontare d’un tratto la realtà ineluttabile di una morte vera. Ananke si incarna nello spirito di una bambina il cui destino è quello di non diventare mai adulta. La necessità della morte del corpo la colpisce in una fase ancora acerba della vita.
Ananke (Ἀνάγκη), dea della necessità ineluttabile, gioca con la sorte dei personaggi, la puella danza come una promettente stella del firmamento il cui palcoscenico è tuttavia un rischioso balcone che la mette costantemente in bilico sul precipizio verso gli inferi.
Nel cortile, infatti, si trovava una botola che con assoluta certezza di Mimì celava l’ingresso al mondo di sotto.
“Tra gli otto e i nove anni mi proposi di trovare la fossa dei morti. Avevo appena imparato, nell’italiano della scuola, la favola di Orfeo che era andato a riprendersi la fidanzata Euridice, finita sottoterra a causa del morso di una serpe. Progettavo di fare lo stesso con una bambina che disgraziatamente mia fidanzata non era, ma che avrebbe potuto diventarlo se fossi riuscito a riportarla da sotto a sopra la terra […] (p. 3)”
Il balcone è un elemento architettonico caro a Starnone che ritroviamo anche in altre sue opere quali “Scherzetto” (Einaudi 2017), dove il balcone svolge un ruolo predominante nella trama, elemento di congiunzione tra il fuori e il dentro, tra il sopra e il sotto, oppure il balcone da cui il gatto Labes si teme sia caduto nel cortile del palazzo nel romanzo “Lacci” (Einaudi 2016). Di nuovo emerge la necessità, questa volta intesa come bisogno di restare in vita, di non sporgersi troppo al di fuori dei confini, oltre il vuoto. Confini necessari, non soltanto in termini di protezione, ma in termini di consapevolezza del nostro destino, dell’Ananke dell’esistenza umana.
In “Vita mortale e immortale della bambina di Milano” si ravvisano diversi livelli, sia fisici che psichici: il cortile si trova a livello del mondo reale, nello spazio dell’io cosciente, il luogo della memoria. Al livello sottostante si trova la fossa degli Inferi il cui accesso è fornito da una botola chiusa da un coperchio e sigillata da un catenaccio. La bambina, Kore, è costantemente lacerata tra la tensione verso l’elevazione, verso l’alto, la realizzazione del desiderio, e l’attrazione magnetica verso il basso, il mondo di Ade. La bambina prende vita agli occhi del protagonista ogni qual volta concede un’apparizione sul balcone, astro che illumina quel “luogo-non luogo” sospeso tra cielo e terra, tra spirito e materia, in ultima analisi tra vita e morte. La fanciulla Kore è attirata da una forza oscura verso il regno di Ade e l’eroe si sente investito del compito di salvare l’oggetto del proprio desiderio dal triste destino di appartenere al re degli Inferi. Tuttavia, ciò non può avvenire poiché Kore deve compiere il suo mito, costretta ad obbedire ad una necessità inalterabile. Ananke vorrà che l’eroe non possa compiere le sue gesta, facendo rapire la bambina da Ade fuori dal microcosmo del cortile, durante una vacanza, annegando. L’esperienza precoce della morte da parte del protagonista sarà la presa di coscienza della tangibilità di ciò che finora era stato un gioco.
All’interno delle mura domestiche, dal canto suo il puer è in cerca di un modello per compiere il proprio processo di individuazione e lo trova nella figura della nonna. L’anziana donna possiede la saggezza tipica delle persone del popolo, istruite dalla dura scuola della vita. La nonna incarna in sé la forza degli antenati che forniscono radici e memorie alla famiglia. Similmente all’elemento architettonico del balcone quanto alla spazialità tra fuori e dentro, esteriore e interiore, anche la nonna funge da trait d’union questa volta cronologico, tra il prima e il dopo, passato e presente, memoria e futuro, in una linea del tempo immaginaria, rivestendo il ruolo di una vera e propria Moira familiare.
Protettrice del focolare domestico, l’anziana donna-Estia rappresenta la perseveranza nella vita, la fedeltà alla memoria offrendo al contempo un lato ombra di un’Afrodite avvizzita che l’assimila ad una strega, adatta al dialogo con gli Inferi.
Estia è la dea greca protettrice del focolare domestico, Vesta presso i Romani. Era la dea vergine per antonomasia e non a caso il termine “nonna”, che alla stregua di mamma ha origine onomatopeica dalla lallazione degli infanti, ha subito trasformazioni in alcune lingue europee, varcando i confini del religioso. “Die Nonne” in tedesco indica la suora, la “nonne” in francese, accezione che in italiano si è persa, seppure non del tutto se si pensa all’appellativo di “madre” attribuito alle religiose. Materno, spiritualità e verginità di mescolano nel personaggio dell’anziana donna. Tuttavia, nell’ordire narrativo, la nonna rappresenta l’arcaicità matriarcale, la capostipite di una genealogia che la riconosce depositaria della memoria familiare e collettiva.
La nonna di Starnone conserva un’unica fotografia sbiadita di se stessa, dove l’anziana si rispecchia contemplando la propria giovane immagine nella quale appare accanto al defunto marito. Di questi, scomparso prematuramente, poco si sa e verso di lui gli altri uomini della famiglia nutrono dubbi e perplessità, avvalorando la tesi della nonna-dea vergine. “Giura che quando muori […] vieni a raccontarmi tutto” (p. 66) dice il fanciullo alla nonna. La nonna è la prima che nella cronologia umana dovrebbe scendere nel mondo degli Inferi eppure Ananke interviene a sovvertire l’ordine delle cose terrene e a far compiere invece il mito: Kore, la fanciulla, si adegua alla necessità di rispettare regole non scritte e scenderà per prima agli Inferi.
Dall’altro canto, nel palazzo che simbolicamente si erge di fronte a quello dell’eroe in una sorta di figura speculare, appare il materno, incarnato dalla madre della bambina, che veglia su di lei con costanza: una vera e propria Demetra, colei che con il suo troppo amore condannò sua figlia Persefone-Kore a congiungersi con Ade.
Kore, soffocata dalle attenzioni di figure-Demetra (anche in questo caso una nonna- Grande Madre e una governante, ancella distratta), resterà l’oggetto del desiderio del puer nell’accezione etimologica de-sidera, mancanza di stelle ovvero di segni augurali propizi.
La nostra Kore, fanciulla senza nome, senza persona ovvero maschera di junghiana memoria, non svolge altro che il ruolo di stella che indica all’eroe il cammino per compiere la trasformazione, per produrre quel processo di individuazione che renderà giusto equilibrio tra il puer e il senex archetipo già presente nel narratore, lo stesso puer adulto. Solo allora Kore avrà un vero volto e una vera identità: se ne conosceranno le reali origini nonché il nome.
Alle spalle del nostro eroe-puer si staglia la figura imponente del nonno, il Pater, il paterno, eroe e il maschile per eccellenza. Al suo confronto, il padre del ragazzo, figura dissacrante nei confronti degli avi familiari, appare come l’aspetto ombra del paterno, una riduzione di quest’ultimo che si frappone tra l’immaginario e la realtà del puer. La figura del nonno, sbiadita dal tempo, sembra non essere mai esistita se non nella memoria dell’antica Afrodite offuscata anch’essa dallo scorrere delle stagioni, trasformandosi nello spirito guida della saggia Estia. Marito della dea vergine, il nonno ben si identifica nella figura mitologica di Hermes il quale, con la sua furbizia ed eloquenza, accompagna la donna nel destreggiarsi tra gli ostacoli della vita. Il nonno incarna l’archetipo paterno che porta ragione e disciplina. È dotato di un bastone di freudiana memoria che non serve a sorreggerlo come l’aspetto esteriore potrebbe lasciare intendere, ma al suo interno cela una spada affilata di cui tuttavia non si servirà mai per trafiggere o penetrare alcunché. Il suo potere resta intrappolato nell’immagine di maestosità che il bastone gli conferisce. Il puer, nell’intento di trasformarsi in eroe, cercherà di violare questo assunto servendosi della spada per raggiungere l’oggetto del desiderio, provocando in tal modo un dolore irreparabile alla nonna. Quest’ultima sarà per la prima volta metaforicamente violata nella sua verginità e si vedrà costretta a confermare che il nonno, suo consorte, mai si servì della spada, simbolicamente ben celata dalla rispettabilità del bastone.
L’anziana protettrice del focolare, nonché della memoria individuale, familiare e collettiva, conserva pertanto una forma di verginità, pur essendo la generatrice del ramo familiare da cui nasce l’eroe.
Ella rappresenta anche un altro grande archetipo primordiale: la Grande Madre, che genera e nutre, ma può anche soffocare e distruggere. Etimologicamente, questo aspetto rimane in alcune lingue europee come il francese Grand-mère, , grandmother in inglese e Großmutter in tedesco, termini più formali per indicare la nonna.
Puer e puella incarnano la polarità tra Animus e Anima. L’eroe è tutto maschile così come lo è il suo atto eroico. Marte fa capolino nella sua forma più limpida e indice il duello e le sfide tra pueri, tra eroi rivali. Come nel mito, Kore-Persefone sfugge allo sguardo protettore di Demetra e viene rapita da Ade. Di lei non si conoscono molte caratteristiche fisiche tranne pochi tratti, tuttavia se ne conosce la leggiadria, se ne descrivono i passi di danza che nella loro eterea bellezza sono anche responsabili del pericolo in cui incorre costantemente la bambina. Vale a dire che l’estetica dell’arte del movimento corporeo è nuovamente un elemento, questa volta fisico, che si trova in equilibrio tra l’elevazione spirituale e la perdizione totale. Di fatto, è l’alterità, la diversità della fanciulla, ninfa di un altro universo, la sua polarità a rendere Kora pericolosamente affascinante agli occhi dell’eroe. La sua milanesità in un contesto intriso di cultura partenopea rappresenta la sua luce e la rende Anima per eccellenza. Gli eroi si batteranno per lei, ignari che Ade ne abbia già fatto la sua prescelta. Tuttavia, la sua estraneità risiede in un unico reale elemento: quello linguistico. La bambina fa uso dell’italiano in un contesto in cui il dialetto è il principale veicolo comunicativo.
Eros e Thanatos si incontrano nel puer divisi da una sottile linea di demarcazione: basta un nonnulla, un inciampo, una reazione in ritardo di una frazione di secondo, affinché il desiderio, la brama, lo slancio verso la stella si trasformi in anelito di morte. In fondo, come ricorda Massimo Recalcati nel suo ultimo saggio (2022) La luce delle stelle morte, la luminosità che giunge alla nostra vista non è altro che la scia di un ricordo di un astro che non c’è più. Una volta superata la soglia degli Inferi, Thanatos non spaventa più.
Puer e puella rappresentano l’innocenza, la stessa dell’eroe che sovente è fanciullo, nella sua spregiudicatezza nel compiere la propria missione salvifica. Fallita quest’ultima, nel puer prende il via un processo di trasformazione verso la fase adulta. Questa si compie attraverso il passaggio alchemico nella nigredo che nel protagonista si esprime in trasandatezza esteriore nonché in somatizzazioni continue del disagio psichico interno. Le “febbri di crescenza”, come le definisce profeticamente la nonn,a prendono possesso del suo corpo ed esprimono tutta la sua inquietudine. Il puer si rifiuterà di acquistare nuovi abiti per non dare nuove maschere al proprio corpo che proseguirà in un processo di crescita fisica risultando inadatto ai vecchi vestiti.
Puer e senex si trovano d’improvviso contrapposti: fanciullezza e spregiudicatezza da un lato, responsabilità e saggezza dall’altro. Nonno e nipote, che nella vita non si sono mai incontrati, si affrontano tramite la lama di una spada che mai sferrò un colpo, in uno spazio senza tempo rappresentato dal perimetro del cortile, quello stesso che nasconde nel suo sottosuolo il regno di Ade.
Puer e senex sono entrambe figure egoiste a cui rimanda l’integrazione femminile, dell’Anima, del mondo delle emozioni incarnato invece dalla puella e da Estia. Il nonno si identifica altresì con la voce narrante, ovvero Mimì il protagonista, nonché l’autore stesso, il quale, ormai senex, è unito a questi da un telos che li esorta a chiudere il cerchio, ad incontrarsi. Quello stesso telos, il fine, guidato dalla necessità del compiersi dell’inevitabile.
Il puer, trasformandosi in adulto, non riesce a mettere ordine nel caos della sua vita e si rifiuta di tornare con la mente ai dolorosi ricordi d’infanzia. Necessiterebbe di un’altra Grande Madre che guarisca il suo puer interiore ferito. La fidanzata, studentessa di matematica, materia razionale e logica, mette ordine e pone limiti al caos così come lo faceva la nonna. Entrambe le donne nutrono un’ammirazione reverenziale per il puer; Nina, la fidanzata, riveste il ruolo della sposa dell’eroe, Deianira consorte di Ercole. Ciò dura finché non viene a conoscenza delle vicende d’infanzia dell’eroe. A quel punto, suo malgrado, agli occhi dell’eroe comincia a rivestire i panni dello spirito della puella morta, rendendola così necessariamente inesorabilmente immortale, andando a rappresentare il telos verso il quale il suo Orfeo ha sempre proteso. All’emergere a livello cosciente della coincidenza tra puella e Deianira, l’autore stesso osserva un cambio di comportamento. Deianira, sposa devota dell’eroe, come nel mito sporca simbolicamente le tuniche di Ercole. La fase di nigredo si ripresenta e la trasformazione avverrà nella direzione di un Hermes dio delle lettere e dell’eloquenza, ma anche del sotterfugio. Il protagonista porterà alla coscienza l’archetipo di Hermes che cercherà di brillare agli occhi della sua fidanzata, inconsapevole – e forse indegna - erede spirituale della bambina. Del resto
“Dissi che Nina era capitata e che ciò che capita non è ciò che scegli.” (p. 124)
Nuovamente Ananke ha compiuto il suo incantesimo, Nina è toccata in fato a Mimì, senza che questi l’avesse co
nsapevolmente scelta, eppure avendone necessità affinché la propria trasformazione potesse aver luogo. Lo stile linguistico rispecchia l’intento dell’autore di far emerge la dualità e l’ambivalenza. L’alternarsi di lingua standard e della sua variante regionale occupa un posto di rilievo nella narrazione, la prima a rappresentare l’intelletto, la ragione, l’ordine, l’io cosciente, il cortile, il secondo le viscere, il caos, l’emotività e la botola degli Inferi. In ultima analisi, la bambina di Milano che altri non era che una conterranea dal linguaggio pulito, agisce in nome di una lingua standard, sentita estranea, eppure anelata, pur tuttavia destinata a perire, ad inabissarsi, a favore di una lingua colorita, pregna di memoria e di infanzia in una società, quella odierna, che fatica a compiere il passaggio da puer a senex. Il metaforico esame di glottologia nel quale si immerge Mimì, ormai studente universitario, si rivela inaspettatamente un mezzo per recuperare la memoria storica familiare ed individuale. In un’ulteriore sincronicità inesorabilmente necessaria, diventa la chiave per il recupero di memorie infantili dolorose, ancora una volta inesorabilmente necessarie al recupero della dimensione temporale del qui ed ora. Sarà la lingua la vera protagonista del romanzo, quella che permetterà di superare la morte, che ricongiungerà passato e presente, recuperando quelle parole del dialetto, lingua intima, orale, dei legami affettivi, “accumulo di metallo sonoro” (pag. 112). L’oro risuona nel tintinnare delle parole dialettali: l’alchimia si è compiuta.
Giovanna Pandolfelli
Pubblicato nel numero 36 del Giornale Storico CSPL (Centro Studi di Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto)